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MAGGIOLINI INTARSIATORE DEGLI ASBURGO

Giuseppe Maggiolini da Parabiago (Milano, 1738-1814)

ebbe una folgorante carriera ed è annoverato fra i principali ebanisti italiani, al punto da dare il suo nome agli arredi che hanno perpetuato lungo tutto l’Ottocento il suo stile incomparabile.

Nel 1771,  in seguito alle nozze dell’arciduca Ferdinando d’Asburgo, figlio dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, con Maria Beatrice Riccarda d’Este la corte arciducale si stabilì a Milano e all’architetto Piermarini furono assegnati i lavori di adattamento e nuova costruzione del Palazzo di città (odierno Palazzo Reale) e della nuova Villa a Monza. Maggiolini fu coinvolto in questi due grandi cantieri neoclassici, disegnò ed eseguì pavimenti, arredi e decori. L’arciduca gli conferì il titolo di “Intarsiatore di Sua Altezza Reale”, che troviamo come firma in forma di cartiglio su pochissimi dei mobili giunti fino a noi.

La leggenda tramanda che il campionario di Maggiolini contasse ben 86 essenze diverse di legni: noce, palissandro, abete, mogano, bosso, acero, pioppo, ciliegio, faggio etc.

L’ultimo quarto del Settecento coincide con l’affermazione del gusto neoclassico, in opposizione al precedente stile rococò o barocchetto, particolarmente diffuso e apprezzato in Lombardia. Un’eco di questa transizione è visibile nelle prime opere di Maggiolini, ovvero dei cassettoni di forma bombata con alte gambe intagliate e decori a cineserie. Ben presto, però, la tipologia del mobile di Maggiolini si precisa: arredi sobri ed eleganti, una forma dominata da rigide geometrie, con fasce laterali e catene superiori e inferiori che definiscono i prospetti; le superfici sono ampie e lisce, con fregi vegetali o ornati geometrici a racchiudere i medaglioni al centro dei piani, contenenti raffinate allegorie classiche o personaggi mitologici. Spesso i disegni di questi medaglioni sono frutto della mano di artisti affermati (Appiani, Levati). La gamba è rastremata e a forma di tronco di piramide, la struttura è solitamente in noce, con poche connessioni a coda di rondine. Solo nella produzione degli ultimi anni la parte figurata inizia a ‘uscire’ dai limiti geometrici delle superfici, andando incontro a un gusto più spiccatamente decorativo per chiaroscuri di sapore pittorico, ottenuti con bruniture a fuoco dei legni e più raramente con la loro tintura.

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Testi da NTQ database – la prima banca dati dell’oggetto d’arte e di design

IL MONDO IN UN CASSETTO

Dal 18 marzo al 25 aprile 2016 al Museo Poldi Pezzoli di Milano
Dal 18 marzo al 25 aprile 2016 al Museo Poldi Pezzoli di Milano

 

Al Museo Poldi Pezzoli di Milano apre una mostra intitolata QUASI SEGRETI.CASSETTI TRA ARTE E DESIGN.

La mostra espone 50 cassettiere di grandi maestri della progettazione e di giovani designer.

Espongono Ettore Sottsass, Tejo Remi, Shiro Kuramata, Mendini, Botta, Ugo La Pietra, Munari, Valextra solo per citarne alcuni tra i più famosi.

Nelle sale dove c’è la collezione permanente i pezzi bizzarri dei giovani designer si affiancano ai loro antenati, gli stipi e i cassettoni delle epoche passate.

La mostra aperta fino al 25 aprile, fa parte delle attività di inventario think tank culturale del marchio Foscarini il cui obiettivo è “occuparsi di arti visive non solo design con la libertà di associazione che porta a indagare il passaggio dall’intuizione al prodotto finito”, spiega il presidente Urbinati e La mostra sui cassetti lo spiega visivamente perché dato un tema anche ovvio come quello della necessità di sistemare, custodire, nascondere, come ricorda il curatore Finessi “vale la lezione di Munari: C’è sempre un altro modo di fare le cose”.

Tratto da La Stampa del 19/03/2016

http://www.museopoldipezzoli.it/#!/it/visita/mostre-eventi/Quasi_Segreti

SEMPLIFICARE: la sedia n° 14 di Thonet

Testo tratto da “Da cosa nasce cosa” di Bruno MUNARI – Laterza editori

Semplificare è un lavoro difficile ed esige molta creatività. Ecco un famoso esempio di semplificazione:

la sedia n° 14 del signor Michael Thonet. Uno che inventa una nuova tecnica per risolvere i suoi problemi con più semplicità senza dimenticare l’estetica che può nascere da quella tecnica.

Le sedie di quei tempi erano fatte di tanti pezzi di legno messi insieme ad incastro o con colle. Ogni pezzo doveva essere lavorato, finito, incastrato, incollato per formare la sedia. C’erano i 4 montanti delle gambe, lo schienale, il sedile, i listelli di rinforzo per tenere assieme e gambe e tutto il resto.

Tanto per fare un esempio consideriamo la tipica sedia di Chiavari o la Windsor. La sedia di Chiavari è fatta con 16 pezzi, è leggera e comoda.

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La sedia Windsor è fatta con 23 pezzi ed è piuttosto pesante.

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Michael Thonet pensò che forse si sarebbe potuto inventare una sedia più semplice, fatta senza spreco, leggera ed elegante. Forse esaminando dei mobili di malacca curvata (la malacca è il nome commerciale del legno della canna d’india, utilizzato specialmente per bastoni da passeggio e manici d’ombrelli) gli venne in mente di provare a curvare dei bastoni a sezione rotonda, di faggio, inzuppati di vapore (pensando ai rami che quando sono freschi si spaccano) per poi inserirli in uno stampo e seccarli facendo evaporare l’umidità assorbita. In questo modo i bastoni avrebbero conservato le forme volute. E quali erano queste forme volute? Thonet pensò che curvando il legno si potevano riunire più funzioni: – i piedi posteriori e lo schienale potevano essere un pezzo solo, che non aveva più bisogno di incastri o di colle. – il sedile, invece di farlo quadrato, lo fece rotondo in un pezzo solo invece che in quattro pezzi da incastrare. In questo modo la sua prima sedia fu realizzata in soli 6 pezzi e tenuta assieme con solo 10 viti.

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Era l’anno 1859 quando la sedia nuova, modello 14, si realizzò. Ancora oggi questa sedia viene costruita nello stesso modo e fino a poco tempo fa ne sono state prodotte oltre 70 milioni di esemplari. La sedia così progettata e costruita risultò più economica, più pratica, leggera ed elegante per la coerenza formale del materiale, della tecnologia usata, senza nessuna forzatura decorativa oltre alle forme nate dalla tecnica.

FRATELLI THONET

A Vienna, dal 1850 i Thonet si dedicarono alla produzione seriale di sedie identificate da un numero.

 Le loro sedie si vedevano nei cafés così come nei palazzi nobiliari. Tutti i pezzi da loro prodotti venivano marchiati e in seguito venne apposto un adesivo e il loro nome finì per diventare un brand.

La “GEBRUDER THONET”- Fratelli Thonet fu fondata nel 1853 da Michael Thonet insieme ai suoi 5 figli e in quell’occasione si ingrandii e traslocò in Mollardgasse 173.

Michael THONET migliorò la tecnica di piegare il legno mediante l’uso di vapore. Il problema principale di questa tecnica derivava dal fatto che spesso il legno piegato in questo modo tendeva a rompersi. Thonet aggirò le difficoltà utilizzando delle morse di metallo appositamente create per consentire la piegatura del legno. Nel 1956 ricevette un brevetto per produrre “ sedie e tavoli di legno piegato ottenuto con il  vapore dell’acqua o di altri liquidi”.

Morsa per la messa in forma del legno
Morsa per la messa in forma del legno

 

La fabbrica in cui avveniva la produzione non si trovava a Vienna bensì in  Moravia a Koritschan, accanto alla materia prima ovvero le foreste. Nella fabbrica lavoravano circa 300 operai e venivano prodotte 50.000 pezzi all’anno che venivano poi inviati a Vienna per la fase di finitura.In seguito Thonet aprì altre fabbriche e nel 1889 la produzione annua era di circa 750.000 pezzi. Negli anni crebbe il numero di modelli proposti dalla Thonet e presenti sui loro cataloghi: nel 1885 se ne contavano circa 300.

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La cornice


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Un quadro coinvolge chi lo guarda se si stabilisce l’ illusione di uno spazio. Ecco la funzione della cornice: non solo determinare la tela o la tavola, ma racchiudere lo spazio rappresentato dal quadro; questo approfondimento dello spazio è molto ridotto quando manca la cornice. Si avverte così maggiormente la sua vera funzione proprio in sua assenza.

La cornice con doppia funzione di limite verso l’ esterno e verso l’interno del dipinto, di difesa in un senso e di sintesi unificante in un altro era già usata nell’ antico Egitto, in Grecia, a Roma e nell’ arte carolingia come bordura dipinta. Già allora si evidenzio’ la necessità di definire uno spazio in modo ben delimitato.

La cornice italiana. Dal Rinascimento al Neoclassico. Edizioni Electa.

 

 

Il più mobile dei mobili: la CORNICE

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L’arte della cornice ha visto svilupparsi nei secoli una classe di artigiani altamente specializzati in realizzazioni di grande livello. La creatività straordinaria di questi artigiani si è riversata in un infinità di dettagli, tipologie, motivi decorativi che hanno reso difficile la classificazione delle cornici. Per citarne alcune: Sansovino, Salvator Rosa, a cassetta, fiamminghe ebanizzate, veneziane laccate, rinascimentali…

Nelle pinacoteca sono pochissimi i dipinti con le loro cornici originarie, spesso rovinate da cattivi restauri o ridorature successive. Questo accadeva perché l’abbinamento cornice/quadri seguiva i dettami delle mode, infatti i grandi collezionisti cambiavano le cornici dei loro quadri proprio per uniformarsi al gusto del momento. Per questo motivo viene definita il più mobile dei mobili, non solo perla sua trasportabilità ma soprattutto per la sua intercambiabilita’ e la leggerezza con cui venivano riadattate e modificate.

Verso la metà del XIX sec. si cominciò a capire l’importanza delle cornici originarie come elemento significativo per l’immagine artistica e storica del quadro e vennero eseguite molte copie di cornici antiche per colmare le mancanze.

Il mensile ANTIQUARIATO di novembre dedica un interessante articolo alla cornice in occasione della mostra al

Getty museum di Los Angeles “Lo stile Luigi: cornici francesi, 1610-1792” e

un’asta da Cambi a Genova con circa 500 lotti provenienti da collezioni lombarde, toscane e emiliane.

 

 

La Werkstatte di Vienna

“La ‘Wiener Werkstätte’ si estende su tre piani, e possiede propri laboratori di metallurgia, oreficeria e argenteria, legatoria, pelletteria e per la produzione e la verniciatura di mobili, oltre a locali pieni di macchinari, studi d’architettura, aule di disegno e spazi espositivi. Nel frastuono di questa vera e propria fucina, gli artisti-artigiani si dedicano con calma al loro ispirato lavoro manuale. Le macchine non mancano di certo; al contrario, la Wiener Werkstätte dispone di tutte le innovazioni tecnologiche atte ad agevolare il processo di produzione, ma qui esse non spadroneggiano da tiranne, bensì fungono da utili e volonterose servitrici. Il prodotto, perciò, è privo dell’impronta della produzione meccanica e incorpora, invece, lo spirito dell’artefice, rivelando l’intervento della sua mano esperta. Il principio fondamentale della Wiener Werkstätte – che dovrebbe, peraltro, essere fatto proprio da tutti gli artigiani che ambiscano ai massimi traguardi – è il seguente: meglio lavorare per dieci giorni su un singolo oggetto, che produrre dieci oggetti in un solo giorno. Il pezzo così prodotto dimostrerà tutta l’abilità tecnica e artistica necessaria alla sua creazione, e il suo valore artistico risiederà dove raramente lo si trova e dove, invece, dovrebbe trovarsi sempre: non nella decorazione esteriore o nelle rifiniture formali, bensì nella serietà e nella dignità sia del lavoro intellettuale sia di quello manuale. Ogni oggetto reca impressi i segni di entrambi questi aspetti, poiché non solo assume la forma scelta dall’artista, ma rivela anche l’intervento del produttore, dell’artigiano, del singolo lavoratore che lo ha realizzato”

Wiener Werkstätte – Josef Hoffmann und Koloman Moser, in “Deutsche Kunst und Dekoration”, vol.15, 1904-05.